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Mantova, donna partorisce una bambina down: ginecologo condannato dalla Cassazione

Secondo la Suprema Corte, il medico non avrebbe informato la madre e il suo compagno degli eventuali rischi di malformazione del feto oltre a non compiere neppure esami più approfonditi durante la gravidanza

Un ginecologo esercitante a Mantova è stato condannato dalla Corte di Cassazione a risarcire una coppia di genitori di una bambina Down; i due erano pazienti del medico. Nonostante fosse stato giudicato innocente nei primi due gradi di giudizio, la Suprema Corte ha deciso di ribaltare le precedenti sentenze, in quanto il ginecologo non avrebbe compiuto adeguatamente esami più approfonditi sul feto che la donna della coppia portava in grembo, in modo da informare anticipatamente i genitori sulla condizione sanitaria della bambina. Tutto è iniziato a Mantova dieci anni fa: i genitori, dopo la nascita della bambina, avevano denunciato il medico e, dopo aver perso nei primi due gradi di giudizio, adesso si sono visti riconoscere il danno e la responsabilità del medico. Ora il procedimento tornerà in Appello per decidere la quantificazione del risarcimento. Secondo la coppia di Mantova, il ginecologo non li avrebbe informati della possibilità di ricorrere all’amniocentesi per attestare la salute del bambino: la madre, originaria della Repubblica Ceca, infatti non avrebbe voluto portare a termine la gravidanza in caso di deformazione del feto. Il medico, però, si era difeso al processo sostenendo che non aveva ritenuto necessario informare la gestante di tutte le possibilità della scienza medica per verificare lo stato di salute del bambino in quanto la donna era in ottima salute e le avrebbe proposto solo quelle indicate per le sue condizioni.

Secondo la Cassazione, il medico ha avuto delle mancanze nella professione e nella deontologia – La Suprema Corte ha affermato che il ginecologo è venuto meno ai doveri impostigli dal codice civile e dalla deontologia e ha violato l’obbligo dell’informazione; insomma, il dovere di un medico non si esaurisce nel verificare lo stato di salute del paziente, ma deve metterlo nelle condizioni di poter decidere tutte le terapie e gli esami a cui sottoporsi. La sua colpa, più che professionale, è umana perchè non ha impostato un corretto rapporto con la sua paziente, più grave del non aver intercettato la malformazione della bimba. Paradossalmente, la sentenza va contro le disposizioni del Ministero della Salute sulla cosiddetta “appropriatezza prescrittiva”, che serve per evitare esami inutili che comportano sprechi e liste d’attesa lunghissime. Anzi, chi non si adegua a questo principio rischia delle sanzioni.

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